
La guerra di Trump contro i social network
Con un ordine escutivo: social perseguibili penalmente per i contenuti pubblicati dagli utenti?
Il presidente statunitense Donald Trump, dopo essersi visto etichettare due suoi tweet relativi al voto per corrispondenza nelle presidenziali di novembre come “potenzialmente fuorvianti”, ha impiegato meno di 48 ore per replicare.
- LEGGI ANCHE - Perché Trump vuole far chiudere Twitter
Il Tycoon lo ha fatto firmando un ordine esecutivo (l'equivalente di un decreto legge) nella nottata italiana tra il 28 e il 29 maggio, che elimina quella sorta di immunità di cui beneficiavano i social rispetto ai contenuti pubblicati dagli utenti.
Il presidente satunitense, evidentemente scottato dopo quella che è stata una “prima assoluta”, nel comunicare di aver firmato il nuovo ordine esecutivo si è detto pronto a chiudere, incredibilmente, il suo account su Twitter, convinto che tutti i social siano in realtà politicizzati e progressisti, con moderatori definiti testualmente "attivisti democratici". Affermazione priva di fondamento, visti i privilegi di cui ha goduto in questi anni pubblicando impunemente bugie conclamate, pindariche teorie e, più o meno, qualsiasi cosa gli passase per la testa, sensata o meno (se non pericolosa).
Il decreto, come evidente allo stesso Trump, verrà bloccato da una serie di ricorsi in tribunale. Ma in questo caso non si tratta di una novità, anzi. Sin dall’inizio della sua presidenza Trump gli ordini esecutivi sono stati più volte “ribaltati” nelle aule giudiziarie come accaduto con il “Muslim Ban”, decreto inaugurale della sua presidenza promulgato nel 2017 per impedire l’ingresso negli Usa a chi proveniva da una “black list” di stati islamici e poi rigettato dalla magistratura che si rifece, anche in quel caso, alla Costituzione e alle leggi vigenti che qualifcavano il decreto come "razzista". .
Questa volta, evidentemente, l'ordine esecutivo è palesemente in contaddizione con ill Primo Emendamento della Costituzione statunitense, ovvero quello relativo a libertà di espressione e stampa.
Secondo il Tycoon, paradossalmente, la nuova norma serve a difendere “la libertà di parola contro uno dei più grandi pericoli” (la censura, ndr), ma il tutto assume contorni sempre più surreali.
Nemmeno troppo sfumati, visto che non è nemmeno sicuro che un decreto presidenziale possa effettivamente andare contro al quadro legislativo vigente, che invece tutela i social da possibili responsabilità penali relativamente ai contenuti pubblicati dagli utenti.
Trump, inoltre, ha minacciato di chiudere il suo profilo Twitter, e nel caso per il social di Jack Dorsey il colpo non sarebbe indifferente, proprio perché il “cinguettatore seriale” ha contribuito, e non poco, a rilanciare la piattaforma di microblogging aumentandone la popolarità e, di conseguenza, i ricavi.
Pericolo ancora più concreto dopo che la piattaforma, evidentemente decisa a non mostrarsi ricattabile, successivamente all’annuncio del presidente ha etichettato un altro suo tweet limitandone la visibilità perché “glorificava la violenza”.
Alimentando uno scontro frontale che non sembra destinato ad esaurirsi a breve, anche in ragione del quadro normativo vigente che cozza e non poco con il decreto presidenziale.
Il dubbio, infatti, è che lo “scudo” che attualmente protegge i social da possibili azioni legali non possa essere eliminato con un ordine esecutivo presidenziale, e probabilmente Trump stesso ne è a conoscenza. Ma, con l’avvicinarsi delle presidenziali, la nuova norma entra di diritto nel complesso della campagna elettorale, con il Tycoon che, da sempre, a bollato stampa e TV come “nemici” politici di sinistra.
Nemici che aumentano di numero e, a suo dire, arrivano a sabotarlo e perseguitarlo per fargli perdere consensi. Un gioco delle parti andato avanti per anni, con i social che entrano dunque nel novero dei rivali del Tycoon. Vero o falso che sia, a prescindere dal nuovo decreto.